Siamo programmati per spingerci oltre il limite e ci sono limiti con cui non abbiamo ancora fatto i conti. Sviluppare il senso digitale richiede avvicinarsi al limite con occhi nuovi.

Questa è la trascrizione dell’episodio #04 del mio podcast Il senso Digitale.
Se preferisci puoi ascoltare  qui

Limite e sviluppo

“Pensi di avere un limite, così provi a toccare questo limite. Accade qualcosa. E immediatamente riesci a correre un po’ più forte, grazie al potere della tua mente, alla tua determinazione, al tuo istinto e grazie all’esperienza”.

Queste parole del pilota automobilistico Ayrton Senna, esprimono bene una faccia del concetto di limite con cui siamo abituati ad avere a che fare. Ossia il limite come qualcosa da toccare e superare costantemente, attraverso abilità fisiche o mentali. E’ il fulcro del progresso, della crescita personale, della capacità di far fronte alle avversità: superare se stessi per scoprire se stessi. Ma questo concetto di limite spesso è collegato alla performance: implica una misura, una quantificazione con dei numeri di riferimento, che direttamente o indirettamente hanno dei corrispettivi in termini economici o sociali.

In che modo il concetto di limite s’intreccia con la trasformazione digitale e l’innovazione?

Praticamente né il cardine.

Il grande limite con cui i primi uomini hanno dovuto misurarsi era il fatto di morire, per questo hanno sviluppato strategie di difesa e di adattamento rispetto all’ambiente. E facendolo, si sono ritrovati di fronte un altro grande limite: la scomodità. Ossia condizioni di vita scomode per poter sopravvivere. Tutta la storia dell’umanità è una storia di miglioramenti delle condizioni di vita e lo sviluppo tecnologico è da leggere in questa chiave, parallelamente a quella economica.

Questione di legittima comodità

Ci siamo circondati di oggetti, sistemi e congegni che ci rendono l’esistenza più comoda.

Basta fermarci un attimo a pensare come sarebbe la nostra vita senza fognature, senza corrente elettrica, senza frigorifero, senza ruota, senza auto, senza navigatore, senza telefono, senza computer…

Certo, una volta si viveva anche senza e tuttora ci sono gruppi etnici che ancora fanno a meno di tutte queste cose. Ma per ora concentriamoci sul fatto che lo sviluppo tecnologico è iniziato proprio da qui: dall’esigenza di renderci la vita più facile e sicura.

Lo sviluppo tecnologico è intimamente legato allo sviluppo economico e al rapporto con le risorse naturali, inserite proprio nell’ambiente così originariamente ostile, che l’uomo nel tempo ha imparato a controllare e manipolare. Indubbiamente abbiamo superato molti limiti, tanto da imparare in qualche modo a volare, tanto da spingerci addirittura su altri pianeti. E per quanto riguarda la morte, la contrastiamo in tutti i modi, rendendoci esseri sopra-viventi a incidenti o malattie estremi di cui una volta si moriva. Rendendoci altresì possibile invecchiare e scongiurare l’invecchiamento.

Il tranello dell’abbondanza

Da tutto questo molte categorie ne hanno un ritorno economico.

Da tutto questo quanti in Occidente possono dire di non averne nessun ritorno economico?

In tutto questo è evidente che abbiamo esagerato: intenti a superare i nostri limiti, abbiamo superato i limiti di tollerabilità dell’ambiente in cui viviamo. Per difendere noi stessi ci siamo trovati a offendere ciò che ci sta intorno. E questo si sta rivoltando contro la nostra stessa sopravvivenza.

Come evidenzia in modo emblematico la scrittrice Naomi Klein, ora si tratta di limitare i danni provocati da un modello di sviluppo senza limiti. Per alcuni la transizione tecnologica e digitale, in questa ottica, risponderebbe a una necessità di impostare un nuovo modello di sviluppo, in cui la tecnologia dovrebbe esserci di aiuto per procedere in modo diverso. In questo senso digitalizzazione e sostenibilità a livello semiotico e simbolico stanno diventando due parole molto gettonate.

La seconda era delle macchine

I ricercatori Andrew McAfee ed Erik Brynjolfsson, sottolineano come lo sviluppo della tecnologia è sovrapposto all’indice del progresso sociale: più un Paese riesce ad adottare tecnologia più sarà alto il miglioramento che sarà in grado di fornire.

La prima rivoluzione industriale ha meccanizzato il lavoro manuale, favorendo la più grande crescita della nostra storia, che ha facilitato molto la vita dell’uomo (soprattutto dell’uomo occidentale), ma ha anche impoverito e inquinato il pianeta. La seconda rivoluzione industriale sta meccanizzando il lavoro mentale dell’uomo, cambiando radicalmente il nostro modello economico e il nostro modo di vivere.

Ed è un cambiamento di una velocità inedita, uno spartiacque storico in cui la tecnologia si sta già scontrando con l’umanità. Come esorta Gerd Leonard è il momento di scegliere con coraggio cosa vogliamo difendere dell’uomo, prima che cambi il significato stesso di essere uomo. Ma per fare questo occorre conoscere come stanno le cose, capire cosa è questa trasformazione digitale. E a poco serve criticarla a prescindere e arroccarsi su qualche isola o in qualche sparuta roccaforte autarchica. Purtroppo isolarsi non salverà nessuno.

Sono più portata a credere che occorra rimanere nel mondo e ridisegnarlo partecipando attivamente al cambiamento, attraverso una coraggiosa autocritica e esplorando il concetto di limite con uno sguardo nuovo.

In questo nuovo scenario i limiti da superare sarebbero i limiti cognitivi dell’uomo. Per questo si parla tanto di mindset digitale, di cambiamento di paradigma. Il mio stesso lavoro nelle aziende implica l’accompagnamento in questa nuova dimensione e il superamento di resistenze, pregiudizi, bias cognitivi rispetto a nuove modalità di approcciare il lavoro, il mercato.

Surfare su un’onda anomala

Ma la trasformazione in atto è come un’onda anomala e per non farsi inghiottire non serve solo imparare a surfare, serve surfare con le ali, ossia sviluppando un senso digitale che ci consenta anche di operare quell’autocritica coraggiosa e quella scelta decisiva di cosa debba essere l’uomo nel futuro che vogliamo.

Una delle prime cose da cambiare è proprio l’approccio al limite.

Incantati dai pifferai dell’abbondanza e del consumismo abbiamo creduto nella crescita costante ed eterna. Per decenni, abbiamo continuato a comprare o a sognare di comprare, abbiamo creduto di poter soffocare i nostri desideri più profondi, esaudendo quelli più superficiali. Abbiamo persino accettato di indebitarci, in cambio di cose. Abbiamo cresciuto i nostri figli nei centri commerciali, li abbiamo vestiti di pezzi di stoffa firmati, abituandoli all’eccesso di qualunque cosa. Anche di cibo, di zuccheri, di grassi idrogenati.

In questa bulimia materialista abbiamo creduto che i limiti da superare fossero quelli che ci impedivano di avere di più…più denaro, più cose, più amici, più considerazione sociale, più piacere.

E ci siamo persi di vista cosa è meglio

La paura del vuoto

Sazi e sicuri, abbiamo evitato di affrontare l’altra nostra paura più ancestrale: la paura del vuoto. Consumare è un ottimo diversivo per distrarci dal vuoto interiore, il vero grande, ingombrante limite umano, dove alberga il terrore atavico della sofferenza e della morte. Nel vuoto c’è il buio, l’ombra.

E non si può affrontare l’ombra con un abito griffato e la pancia troppo piena. Serve staccarsi dalle cose e riappropriarsi di una dimensione spirituale.

Non è un caso che nel corso dell’ultimo secolo le religioni abbiano perso aderenza e fiducia. Alla crisi dei miti religiosi corrisponde una crescita di nuovi miti: i brand. Quelli che ce l’hanno fatta, che hanno superato i propri limiti per ottenere il massimo e si stanno spartendo la torta globale, proprio grazie alle nuove tecnologie.

Il senso dell’abbastanza

Se vogliamo un mondo nuovo, forse più che sul limite è opportuno riflettere sull’abbastanza. L’abbastanza è un po’ come il q.b. delle ricette: implica la misura, ma senza la quantificazione numerica. La misura come valore, come ideale, come canone di senso e fa riferimento un buon senso comune, condiviso, che se non c’è, se non esiste, occorre costruirlo. Forse dovremmo ripassare i classici greci, forse dovremmo rileggere opere intramontabili come l’Orlando Furioso per ritrovare la dimensione dell’abbastanza e riformularla alla luce di chi è ora l’uomo, di cosa sa fare ora e di cosa intende davvero diventare con gli strumenti che ha a disposizione.

Non so se la sostenibilità e la tecnologia insieme possano aiutarci a disegnare un nuovo mondo, ma ho il sospetto che si debba innanzitutto approcciare la natura in modo diverso. La natura non ha bisogno di essere difesa, ma conosciuta e rispettata. Vivo a due passi dalla Langa, uno dei posti più belli al mondo per avvicinarsi alla terra. Sono circondata da vigne e agricoltori e ho paura dei vermi. Quando mi sono resa conto di questo ho iniziato a capire una cosa: la natura chiede rispetto anche delle sue parti meno bucoliche e della sua caducità. E per rispettarla dobbiamo partire da noi, rispettando la nostra caducità. Ossia riconoscere che la morte è il limite che conferisce senso alla vita e accanirsi troppo a non invecchiare e a non morire forse ci farà sopravvivere, ma da ammalati cronici, incapaci di riempire il vuoto esistenziale.

Quindi il senso digitale di questo vuoto si deve occupare e accanto alle competenze tecniche occorre implementare quelle umanistiche, occorre incoraggiare e supportare la letteratura, la filosofia, l’arte, perché sono queste le discipline che preservano l’immaginazione e la visione e ce le siamo perse per strada, perdendoci. Gli umanisti oggi non possono occuparsi solo di content marketing o di human centric design o di user experience, gli umanisti e gli artisti oggi più che mai devono occuparsi del vuoto di senso di questo tempo. L’innovazione che auspico passa di cui, ossia per integrazione armonica dei saperi e la cura delle narrazioni collettive, perché le storie sono come una ragnatela che ci tiene sospesi nel vuoto (Sonia Bergamasco).

D’altra parte un Uomo che rifugge il vuoto come potrebbe muoversi libero nell’incertezza di oggi e come potrebbe avventurarsi nello Spazio?

Mi piace pensare a questo blog come a una nuova casa: accomodatevi, leggete, condividete e commentate, se volete.

Gabriela Tirino
Facilitatrice di senso

Se vogliamo un mondo nuovo, forse più che sul limite è opportuno riflettere sull’abbastanza. L’abbastanza è un po’ come il q.b. delle ricette: implica la misura, ma senza la quantificazione numerica. La misura come valore, come ideale, come canone di senso e fa riferimento un buon senso comune, condiviso, che se non c’è, se non esiste, occorre costruirlo