
A un anno dall’inizio della pandemia, è sempre più chiaro che non ci servono solo nuove skills digitali. Ci serve un vero e proprio senso digitale per cercare nuove narrazioni di innovazione.
Questa è la trascrizione dell’episodio #01 del mio podcast Il senso Digitale.
Se preferisci puoi ascoltare qui
E arrivò la pandemia
Neil Postman era un sociologo americano che si occupò in particolare di massmedia e società moderna. Sosteneva che una nuova tecnologia tende a favorire alcuni gruppi di persone e a danneggiarne altri, decretando vincitori e vinti. Così, per esempio, i cantastorie sono diventati obsoleti con il diffondersi delle macchine da stampa o i maniscalchi sono risultati sorpassati quando le auto hanno preso il posto dei cavalli. Secondo Postman anche gli insegnanti, prima o poi, sarebbero diventati datati, rimpiazzati dalla televisione.
Quella mattina mentre bevevo il mio caffè alla finestra, guardavo la piazza deserta sotto casa mia, e pensavo a Postman.
Erano i giorni del primo lockdown e sembrava di essere piombati sul set di un film di fantascienza.
La televisione non ha soppiantato gli insegnanti, pensavo, ma forse lo faranno i suoi cugini più giovani, ossia gli schermi dei vari device.
Non sono un’insegnante, ma la formazione aziendale stava vivendo dinamiche simili a quelle della scuola e mi irritava finire tra quelli che Postman definiva vinti.
In realtà in quei giorni molti di noi si sentivano vinti e in tanti stavamo diventando degli schermi, anche gli studenti purtroppo, i bambini, gli adolescenti.
La pandemia ci stava portando dritti dritti proprio lì.

Insomma, come tanti, mi sono ritrovata a lavorare da casa, attraverso uno schermo e fu proprio in quei giorni che cominciai a pensare al concetto di senso digitale.
Le mie giornate erano un susseguirsi di videocall con un ritornello antipatico…come, non ti sento, tu mi senti? Ti vedo ma non ti sento…tu mi vedi?
Fare il mio lavoro in quel modo mi risultava odioso. Non che non avessi mai fatto riunioni di lavoro online prima d’allora, ma era l’eccezione non la regola!
E poi, lo ammetto, io sono sempre stata una fanatica delle interazioni in presenza, soprattutto per il mio lavoro e ripetevo spesso che il coaching online no.
Le visite di Merlino
La verità è che con i clienti in video mi sentivo mutilata, costretta a muovermi a tentoni, cieca e sorda. Non mi sentivo all’altezza, il che non mi faceva saltare di gioia.
Merlino l’aveva capito, per questo mi faceva visita spesso.
Merlino, si, il Mago!
Le sue parole a proposito dell’imparare mi risuonavano in testa 24 ore su 24 in quei giorni:
Quando si è tristi non si sbaglia mai ad apprendere qualcosa di nuovo! A qualsiasi età, qualsiasi sia il motivo della tristezza, imparare è l’unico rimedio. Capire perché il mondo si muove e che cosa lo muove, questo è un argomento inesauribile e sempre stimolante. Conoscere è la chiave!
E io studiavo, leggevo, seguivo webinar, ne facevo, intervistavo, rifllettevo, scrivevo, scrivevo tantissimi appunti.
E intanto ogni contatto con l’esterno era oggetto di osservazione, ogni videocall era una prova pratica di allenamento.

Finché un giorno successe qualcosa
Successe che durante le videocall semplicemente mi catapultavo accanto ai miei interlocutori, seduta alla loro scrivania o sul loro divano in salotto o nella loro cucina, a seconda di come mi apparivano.
Il video per me non esisteva più ed era sparito il mio disagio. O meglio, avevo lanciato il mio cuore oltre lo schermo e interagivo con quello.
Naturalmente è successo qualcosa del genere a molti. Ci stavamo abituando a usare quella modalità comunicativa per necessità, cercando di diventare più efficaci ed empatici possibile. Si chiama capacità di adattamento.
D’altra parte già da tempo chi viveva lontano dal proprio paese d’origine o chi si amava a distanza conosceva bene questa cosa del lanciare il cuore oltre lo schermo.

Nel nostro immaginario si è fatta strada la convinzione, più o meno consapevole, che tutto sommato si poteva fare ed era meglio di niente. Stavamo comprendendo che a prescindere dal mezzo usato per parlarci, eravamo comunque noi in carne e ossa a farlo, con tutte le sfumature che la comunicazione umana comporta e nonostante le interferenze audio e video.
Intanto, nella nostra nuova vita da isolati in casa, stavamo sviluppando sempre di più anche altre abitudini. Le cene da asporto, gli acquisti di ogni genere online, la connessione sempre più costante sui social..
Ci stavamo muovendo sempre di più nella dimensione parallela offerta dal mezzo digitale.
Una dimensione per cui mi sembrava sempre più urgente sviluppare un’abilità nuova per poterci orientare e difendere. Ecco, il senso digitale secondo me doveva rispondere a questa urgenza e di digitale non ha nulla in realtà, anzi è fatto dei nostri stessi sensi, allenati a rispondere in questo contesto, anche con i mezzi digitali a disposizione.
L’abilità a rispondere è la responsabilità e il senso digitale debba averne in abbondanza.
A tu per tu con un mostro affascinante e pauroso
Insomma, in quei giorni Merlino continuava ad alitarmi sul collo con il suo conoscere è la chiave! E finalmente cominciai a capire perché da qualche anno la vita mi aveva tuffata nel mondo tech. Proprio io, che adoro il profumo della carta e scrivo con la stilografica!
Da circa un paio d’anni, infatti, stavo lavorando con delle società informatiche. Frequentare quel mondo per me era come fare un viaggio nel futuro, un futuro che era già presente e provavo un’angoscia mista ad adrenalina ogni volta che sentivo parlare di Big Data, Intelligenza artificiale, Machine Learning, IoT, Blockchain…
Ora, in quei giorni rinchiusi di inizio pandemia, il futuro galoppava veloce e la trasformazione digitale sembrava avere ormai una gran fretta.
E la mia angoscia cresceva.
In bilico tra inadeguatezza e spirito di sopravvivenza, tra repulsione e curiosità per il nuovo, Merlino mi spinse ad azzittire tristezza e paura e a immergermi sempre più profondamente in quel mondo. Non avrei mai più potuto fare il mio lavoro, senza capire il cambiamento epocale in corso. Non avrei mai più saputo chi fossi, senza rischiare di perdermi.

Quindi, finito quel primo periodo di clausura, mi sono ritrovata iscritta ad un master in digital transformation e mi sono impegnata a lavorare proprio in questa direzione con i miei clienti. Già, perché nella pratica seguire le persone e le aziende nel cambiamento implica aiutarle a muoversi in questo contesto.
Per me era come affrontare un mostro di petto. No per ucciderlo, forse per salvarlo, giacché se qualcosa ci fa paura è perché ne vediamo solo il male, senza vedere il bene. E lo sappiamo: male e bene non sono capaci a stare l’uno senza l’altro.
E’ così che è iniziata la mia avventura in cerca di capire di cosa può essere fatto il senso digitale, perché sospetto che scegliendolo come meta, ci possa dire molto sull’ innovazione oggi. Credo che il senso digitale non abbia a che fare solo con la nostra percezione o nostre skills, ma con tutto ciò che va ben oltre i sensi e incontra le molteplici sfumature del senso, a cui tendiamo come esseri umani.

Accettare il rischio di perdersi
Da allora mi sono persa più volte e può darsi che mi perderò ancora. Da una parte dietro la potenza affascinante della tecnologia, altre nella ricerca di un umanesimo nuovo. Un umanesimo contemporaneo, come lo chiama Alessandro Baricco, capace di costruire il Game in modo che sia adatto agli uomini.
Ma perdersi è necessario quando si lancia il cuore oltre.
Oltre lo schermo, oltre le apparenze, oltre la paura.
E si, per perdersi serve coraggio, me lo hanno insegnato alcune persone che di coraggio che hanno da vendere. Il senso digitale deve essere fatto anche di coraggio.