Il silenzio è cosa viva

Non tutti i silenzi sono uguali.
Come, grazie alla consapevolezza del vivere, si diventa sensibili alla luce, alle diverse sfumature di luce in diversi luoghi, in differenti momenti della giornata e delle stagioni, così si colgono miriadi di sfumature nei silenzi nostri e altrui, silenzi umani, silenzi degli animali, degli alberi, silenzi minerali.
Il silenzio non è tacere, né mettere a tacere, è un invito, è stare in compagnia di qualcosa di tenero e avvolgente, dove tutto è già stato detto. Il silenzio sorride.
Caro silenzio, aiutami a non parlare di te, aiutami ad abitarti. Addestrami. Disarmami. Tu mi insegni a parlare. Eccomi, mi lascio rapire. Non lascio niente a casa, niente di intentato. Ci sono. In te. Arte del congedo per ritrovare.
Arte dell’a-capo che insegna a lasciarsi scrivere. Il silenzio semina. Le parole raccolgono.
Il silenzio è cosa viva.

Questa è la trascrizione dell’episodio #06 del mio podcast Il senso Digitale.
Se preferisci puoi ascoltare  qui

Sì, questo podcast l’ho interrotto di silenzio. L’ho fermato per un po’, dopo aver letto questa bellissima poesia di Chandra Livia Candiani, perché l’ho sentito necessario.

Ho capito che nell’innovazione che vorrei, un po’ di silenzio ci starebbe bene, perché aiuta a pensare e siamo in un tempo in cui la parola a volte precede una riflessione accurata. E quindi eccolo qui un primo messaggio di questo nuovo episodio: il silenzio è cosa viva e c’è un silenzio e anche una lentezza che chiedono voce.

Lentezza e memoria

C’è una relazione sottile tra il silenzio e la lentezza e ci trovo un nesso con quel legame tra lentezza e memoria, che ci ha insegnato Milan Kundera in quel passo famoso de La lentezza, che voglio leggere ora qui:

“C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio”.

 

Oggi la velocità è rumorosa e sta accelerando tutto. Certamente in questo particolare periodo ci vogliamo allontanare in fretta da qualcosa, vogliamo dimenticare certe lentezze e certi silenzi obbligati della pandemia. In questi giorni, il vociare per le strade, nei dehors o sulle spiagge parla di un desiderio di movimento, di libertà.

Anche il movimento è cosa viva, certamente. Correre veloci, a piedi, in moto, in auto o su un razzo è un simbolo emblematico.

Ma c’è anche la velocità assordante della rete, delle immagini, dei suoni, dei testi di cui la riempiamo, confermandola sempre di più come una realtà che non si muove parallela a quella vera, ma la comprende, la estende. Non senza deformazioni e costrizioni a presenziarvi, soprattutto per chi ha un’attività.

E c’è la velocità dei dati che richiede processi decisionali snelli, agili e capacità di cambiare in corsa, continuamente. La velocità è addirittura un valore.

Da cosa ci stiamo allontanando, cosa vogliamo dimenticare o cosa non ricorderemo più? Soprattutto, allontanandoci, lasciamo qualcosa per procedere alleggeriti verso un mondo migliore, o perdiamo qualcosa che invece ci servirà ancora? Questo è un grande quesito intorno alla tecnologia: cosa ci riserva davvero questo ipotetico mondo migliore e se perderemo qualcosa, che cosa?

Se si accelera sempre di più, che fine faranno il silenzio e la lentezza? Saranno del tutto inutili?

Ritmo inadeguato?

C’è una lentezza, che in un modo o nell’altro, ci appartiene: quella che ci richiede un buon numero di ore di sonno, diversi mesi per trasformarci da embrioni a neonati e almeno una ventina d’anni per diventare adulti. E poi, da vecchi, ci rallenta il passo, la digestione e i riflessi.

Seguiamo ritmi naturali, proprio come quelli delle piante, degli animali e dei mari. Noi stessi siamo natura, forse per molte cose siamo naturalmente lenti. Forse, chi più chi meno, come l’uomo che rallenta per ricordare, nel testo Kundera, ci serve lentezza. Anche per dare forma a un pensiero, apprendere, guarire un lutto, posare un’offesa, riconoscere uno sbaglio o prendere una decisione. Tutte cose, del resto, che spesso chiamano silenzio.

C’è qualcosa che non mi torna: in un momento in cui si parla tanto di sostenibilità, di difesa del pianeta e della natura, sembra che questa velocità cozzi con la nostra stessa natura. Lo noto continuamente nel mio lavoro di accompagnamento e mediazione in questa trasformazione, soprattutto nelle piccole e medie imprese.

Il grande tema della rivoluzione digitale è che dobbiamo cambiare, le macchine vanno più veloci di noi e sta proprio qui uno dei nodi della trasformazione. La famosa inadeguatezza cognitiva, che ci caratterizza rispetto all’evoluzione delle macchine, evidentemente comprende anche le nostre lentezze. Insomma i nostri ritmi sono inadeguati a questo cambiamento. Dunque, sarà vero anche il contrario: questo cambiamento non rispetta i nostri ritmi.

L’influenza delle tendenze cognitive individuali

Per capire meglio le resistenze con cui si sta scontrando questa trasformazione, è utile considerare che come individui non siamo uguali.

Abbiamo anche ritmi molto personali e sono influenzati dalle nostre peculiari preferenze cognitive, che incidono sul modo di affrontare questo cambiamento. Per esempio, semplificando molto, possiamo notare (anche attraverso strumenti specifici) che chi è molto orientato verso l’evoluzione, ama e ricerca il nuovo e tende a sentirsi a proprio agio in una dimensione fuori dagli schemi. Chi invece rifugge il nuovo ne è intimorito, predilige la sicurezza, la strada già battuta, regole precise e testate da rispettare. Poi ci sono gli iperazionali, sono magari lettori perfetti di Big Data e di bilanci, ma spesso hanno poca capacità d’immaginazione e non hanno particolari doti comunicative ed empatiche, per entrare in sintonia in un team eterogeneo e orizzontale. Mentre chi invece le ha, per esempio soffre in smart working, ha bisogno di contatti da vivo, di confronti, delle famose pause alla macchinetta del caffè.

Certamente è solo una semplificazione di un approccio sistemico ben più ampio. La uso qui per sottolineare che è naturale che ci siano persone che fanno più fatica di altre a gestire questo momento, soprattutto in ambito professionale, dove servono sostanzialmente tutte le preferenze cognitive e i loro infiniti intrecci, il più in fretta possibile. Perché il mondo intorno corre.

Sicuramente serve una grande spinta immaginativa per riuscire a vedere il futuro al buio. E’ chiaro che, in un’azienda, ci sono distinzioni di competenze e ruoli. Ma, vero è che se i vari ruoli non riescono a sintonizzarsi e collaborare alla stessa velocità, la resistenza si espande in team, anche se all’interno ci sono persone particolarmente ispirate da questo cambiamento.

Quindi restano fondamentali le soft skills che hanno a che fare con la cooperazione, il confronto, l’orientamento alla soluzione e alla gestione dei conflitti, la comunicazione. E, sopra tutte, l’empatia per favorire il dialogo tra le persone. Tanto più che i nuovi modelli organizzativi, che si rende necessario adottare per facilitare processi decisionali più snelli, associati a una futuribile diffusione di uno smart working strutturato, richiederanno sempre di più un modo di lavorare in team del tutto nuovo per molti.

Insomma, sembra un paradosso: per facilitare la rivoluzione delle macchine, serve l’uomo con le sue parti più umane, soprattutto serve l’immaginazione, la sensibilità e la comunicazione.

E queste sono capacità che non sempre, ma spesso, fanno un po’ a pugni con la velocità e il chiasso. Implicano la cura della relazione con se stessi e con gli altri. Sono facilitate da una certa frequentazione del silenzio e dell’introspezione, fioriscono con la riflessione e il ricordo, inteso in particolare come autoanalisi e memoria del proprio fare e dei propri errori, ossia strumento di autocritica.

Ciò che osservo, nel mio piccolo, è che il timore che l’esposizione alla tecnologia aumenti il pericolo di atrofizzazione di tali capacità è piuttosto fondato, purtroppo.

Forse una bacchetta magiche è l’equilibrio tra velocità e lentezze, insieme alla cura attenta di queste abilità umane. Perché se è dalle lentezze che si corre via, rischiamo di farci molto male e i rapporti umani in certi contesti di lavoro sono destinati a franare, non a fare da perno e da bilancia nella sfida di questa rivoluzione.

Mi piace pensare a questo blog come a una nuova casa: accomodatevi, leggete, condividete e commentate, se volete.

Gabriela Tirino
Facilitatrice di senso

Ho capito che nell’innovazione che vorrei, un po’ di silenzio ci starebbe bene, perché aiuta a pensare e siamo in un tempo in cui la parola a volte precede una riflessione accurata. E quindi eccolo qui un primo messaggio di questo nuovo episodio: il silenzio è cosa viva e c’è un silenzio e anche una lentezza che chiedono voce.